lunedì 28 novembre 2016

Educare col calcio: belle parole

Quarto Dia


Oggi la discussione in aula si è fatta calda, accesa, più del solito: approfittando della mancanza di Alexei, il responsabile per l’inder a l’Havana, quindi approfittando dell’assenza del “controllore” della federazione sui campi della capitale, dopo aver fatto veder loro dei video relativi alle giornate passate insieme in campo in cui emergeva chiaramente il diverso coinvolgimento, il diverso divertimento dei bimbi allenati da noi, piuttosto che da loro (e non lo abbiamo fatto per darci delle arie: abbiamo ritenuto utile far vedere loro ciò che normalmente non riescono a cogliere, concentrati come sono sull’allenamento, sul mantenimento dell’ordine, della disciplina e sulla riuscita dell’esercitazione), si sono scatenati. Tutti d’accordo, tutti consapevoli del fatto che il metodo imposto ormai sia da cambiare, da sostituire, perché inadatto e soprattutto infruttuoso, visto il livello ancora “bassino” del calcio a Cuba, ma anche tutti consapevoli del fatto che il cambiamento non potrà mai avvenire dal basso, quindi a partire da loro. “Dovete invitare ai corsi i nostri capi”, ci dicono strofinandosi le spalle con due dita, gesto inequivocabile che sta ad indicare i capi, i generali, “solo così potremo ottenere qualcosa”. “SI, ma allo stesso tempo dobbiamo vincere qualche campionato noi municipi che facciamo parte di Inter Campus. Visto che loro guardano solo il risultato, solo così possiamo attirare il loro interesse sul vostro metodo”. Risultati…loro guardano solo i risultati. Questa frase nell’ultimo periodo mi sta perseguitando e la sto combattendo ferocemente più di prima, ma, ahimè, mi sto anche rendendo conto che non credo che riuscirò mai ad eliminarla. Anche in Italia funziona così. Anche ai bassi, bassissimi livelli, anche quando in campo vanno i bambini, l’unica cosa che conta è il risultato. E tutti la pensano così, nessuno escluso: qualcuno fa finta di pensarla diversamente per brevi periodi, ma quando non ottiene per un po’ vittorie da poter esibire al bar sotto cosa, di cui poter parlare con i suoi amici totalmente ignoranti calcisticamente, ma poiché italiani in possesso di non si sa bene quale sconfinato sapere legato al calcio e all’allenamento, ecco che la solfa cambia. Tutti, ma proprio tutti, anche nelle società con cui noi intercampisti abbiamo a che fare in Italia, le cose hanno preso questa stupida, ignorante e maledetta piega e non riesco a combattere questa tendenza. Anzi, sto soccombendo. Noi, gli allenatori, la vediamo tutti allo stesso modo, ma da tutt'intorno arrivano messaggi ben precisi “dobbiamo vincere”. Chi se ne incula del come. Chi se ne incula del fatto che se anche avremo vinto un campionato quest’anno, se non ho lavorato per cercare di accompagnare nel loro percorso di sviluppo tutti i giocatori, dando loro regole, rispetto, dando loro fiducia in se stessi, aiutandoli a stare insieme, a conoscere altri al di fuori di sé e magari aiutandoli ad accettarli, non avrò fatto un bel niente per i miei ragazzi. Perché di questi, quanti continueranno a giocare? Quanti arriveranno alla prima squadra? Quanti faranno di questo sport il loro mestiere? Ma a loro che gli frega: avranno messo in bacheca la foto della squadra “campione”. Pensare di accendere nei cuori di questi ragazzi la passione per lo sport, che li accompagnerà per tutta la vita per loro è cosa lontana; pensare di far avvicinare questi ragazzi allo studio relativo allo sport (liceo sportivo, scienze motorie) solo grazie agli allenamenti con cui li coinvolgi quotidianamente, aiutandoli a trovare un loro talento, una loro passione, per loro è cosa non di loro competenza; pensare di…già, pensare. No, conta solo vincere. A cuba, come in Italia. Su tutti i campi del mondo.

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