domenica 3 marzo 2024

WHAT A DAY!!!

 Madonnina che giornata! Infinita e incredibile, ricca di incontri e esperienze uniche, che spero di portare con me per tutta la vita. E se non dovessi ricordarmi...ecco l'utilità del blog. Dovrò "solo" risalire alla data di pubblicazione della storia. 
Andiamo per ordine: classica sveglia, sempre la solita in trasferta o a casa, 6:30; circuito per il ginocchio, lavoro per i piedi, colazione e via, verso lo stadio. Oggi ci aspettano 100 bambini e i nostri 48 allenatori, formati in questi giorni, per la giornata finale, il festival, ossia 9 stazioni con 9 esercizi diversi e i bambini che ruotano tra essi divisi in gruppi da 10/12. Son contento, la gente qui è super positiva, allegra, amichevole, i coach educators si son dimostrati interessati, coinvolti, ben disposti fin da subito, e soprattutto pronti alla battuta, allo scherzo. Fortissimi. Quando hai una classe così viene naturale dare il 110% per loro, cercare di fare di tutto e di più affinché capiscano la metodologia , facciano propri consigli, idee per gestire al meglio le sedute di allenamento, interiorizzino al massimo i concetti che stiamo loro trasmettendo, perché vedi la passione, la volontà che si scontra con la scarsezza di mezzi, di opportunità. E quindi viene naturale svegliarsi carichissimo, super contento di andare al campo. E allora via, verso lo stadio. Il sole è bellissimo, il cielo di più, con le sue nuvole bianche a fare da contraltare all'azzurro acceso che lo caratterizza in questo lato di mondo. Preparo i campi, divido gli allenatori, divido i bambini, ma...cacchio, ce ne sono una decina che aspettano solo di giocare, ma che, non essendo delle scuole parte del progetto, il TD (technical director) non ha messo nel gruppo che poi ho suddiviso in squadre. Quindi? Faccio partire il festival, mi avvicino loro, ne prendo due alla volta e li butto nella mischia, senza farmi notare da Antonio, il mio collega. Un bravo ragazzo, mi trovo benissimo con lui, ma a volte un po' troppo...rigido, precisino. Per cui meglio non renderlo cosciente di questa cosa. Via così, giocate. E alla fine questi 10 bimbi, tra cui due bimbe, son quelli che si divertono di più: in ciabatte (si, davvero. In ciabatte. Con le crocs ai piedi!!!) alcuni, a piedi nudi gli altri, tutti sono strapresi dagli esercizi e tutti si impegnano alla morte per domare quell'attrezzo sferico che tanto ammalia, ma che anche tanto difficilmente si riesce a gestire. Una energia indescrivibile fuoriesce da questo campo per 90 minuti, al termine dei quali inizia la parte che sempre odio: GS (segretario generale), Presidente, ministro dell'educazione e dello sport lanciano ufficialmente il progetto nel paese e, come tanto piace in Africa, non si risparmiano con  discorsi e ringraziamenti! Madonnina che sonno. Per fortuna mi sono defilato per tempo e ho lasciato vuota la mia sedia sul palchetto per sedermi in mezzo a bambini e allenatori, per cui le mille ore di discorsi vari passano relativamente veloci ridendo e scherzando con le persone. 
Concluso il tutto, salutati tutti, bambini e allenatori, ci muoviamo con Laizon, il TD: gli abbiamo chiesto di portarci in giro per Lusaka per assaggiare un po' dell'autenticità di questo posto e lui, ben contento, nato e cresciuto in un compound della città, ci porta subito al suo quartiere. Casette di mattoni, altre di lamiera, strade polverose e...gente ovunque. Ma tantissima gente! Incredibile! Camminiamo un po' fermati da bimbi incuriositi (uno mi chiede: are you african? No, I'm from italy. Ohh, i see. I'm from zambia!) per poi fermarci in un "ristorante" dove mangiamo in puro stile locale con le mani pesce, carne e anatra, con verdure varie di contorno; il tutto accompagnato da mshish (chissà se si scrive così), una cosa bianca un po' appiccicosa, poco saporita,  fatta col mais, che si usa al posto delle forchette. Ne fai una pallina, la rendi una specie di cucchiaio e prendi con questa cosa tutto ciò che hai nel piatto. Piatto condiviso, ca va san dire, coi commensali. Insomma, se non mi cago addosso questa notte, posso star tranquillo per il resto della vita. 
Finito il pranzo riprendiamo l'esplorazione del quartiere e ad un certo punto una palla rimbalzante arriva a me: un gruppo di bambini sta giocando in uno spazio di terra e sassi e io son capitato li vicino. Palleggio un po', mi avvicino al gruppo, quindi lancio loro il pallone. Immediato il pensiero mio e di Antonio: abbiamo una decina di palloni in macchina! Prendiamone uno e diamolo loro (anche due), così mandano in pensione questo vecchio attrezzo ormai poco rimbalzante. E due minuti dopo siamo in campo anche noi...col pallone vecchio. Quello nuovo è troppo bello per essere usato qui! Stupendo. Che magia unica, che emozioni è in grado di regalarci questa palla. Mentre gioco torno con la mente a Tabiago, alle partite infinite in strada, con le linee del fuori invisibili agli esterni, ma ben chiare a tutti noi, con il muretto che fungeva da sponda nelle situazioni di 1<1 e con le regole nostre, solo nostre e che nessun esterno poteva capire. Madonnina che bello giocare a calcio. Alla fine io e i miei 4 compagni vinciamo, ma poco importa: grazie bimbi, era da novembre che non giocavo, da quando son stato operato, e grazie a voi son tornato a godere della bellezza di quella palla!
Ripartiamo, sudati e contenti: alle 17:30 c'è il derby di manchester e vogliamo godercelo in un posto "autentico", ma dobbiamo sbrigarci, se no non troviamo posto. Qui son tutti matti per il calcio inglese, in giro tutti indossano maglie della premier (ne ho viste anche del Brighton di de zerbi!) e il posto dove ci vuol portare è piccolo...ma stupendo! Siamo gli unici due mzungo nel raggio di un paio di km, ma la cosa non mi disturba per nulla e non disturba loro. L'atmosfera è bellissima e la partita lo è altrettanto. Me la godo fino in fondo, con un paio di birre di contorno, sul nostro tavolino di plastica, con la nostra televisione che gracchia e con i tifosi intorno che ridono e incitano i red devils...peccato che il man city domini e alla fine vinca 3-1. Ma a loro sembra importare poco. E a me anche meno. 
Mi godo tutta questa giornata ora, mentre scrivo, e ancora una volta mi domando se merito davvero tutta questa fortuna. Ma mentre cerco la risposta, mi godo ogni secondo.  

giovedì 29 febbraio 2024

Tempus fugit

 A volte, anzi molto spesso, mi ritrovo a guardare il calendario, ad osservare la data del giorno, e a pensare: "wtf! come cacchio è possibile? Siamo a marzo???". E una sensazione terribile mi assale. Un misto tra paura e sgomento, tra ansia e preoccupazione: cazzo, siamo già a marzo, son successe mille cose in questi tre mesi, tutte bellissime come spero sarà per tutta la vita, inshallah, e io...le ho vissute tutte? ho goduto ogni attimo, ogni secondo di queste esperienze? O l'incessante succedersi degli eventi mi ha impedito (che sia una scusa dar la colpa al tempo, per non cercare una soluzione vera?) di capire veramente quanto di bello mi stava accadendo e quindi di respirare ogni attimo di queste esperienze? Lo penso e lo scrivo spesso: siamo tutti nella stessa barca, non sono io speciale e siamo tutti in un maledetto frullatore che ci gira, rigira, sbatte e risbatte, travolti dagli eventi e incapaci di fermarci e vedere, sentire, vivere l'attimo. Sud Sudan, rientro in Italia, sto a casa 18 ore (atterro la mattina, riparto la sera), via verso il Congo, rientro, sto a casa non so nemmeno più quanti giorni e via, di nuovo in aereo, kuwait, bahrain, oman. Rientro, a casa un'altra manciata di ore e di nuovo in volo, direzione Zambia e Zimbabwe. E in mezzo la scuola, i laboratori del liceo da portare avanti, la giornata dello sport da definire, la società sportiva con i nuovi corsi che partono... ripeto, non sono io speciale, siamo tutti nello stesso frullatore. E ciò che ci rimette per tutti è la famiglia: Margherita non perde occasione per dirmi "basta andare in aereo", Anna non dice nulla, ma i suoi mega occhi mi fulminano ogni volta che le dico che devo andare, Silvia...Silvia è la donna migliore che potesse capitarmi e regge da sola la baracca, sopportando le mie assenze tra lavoro e bambine. Sopportando anche la mia assenza il giorno del suo compleanno. Davvero, che centrifuga. E tutto questo succedersi di eventi ti fa perdere memoria di ciò che ti è accaduto, di ciò che vorresti fissare in testa perché momento importante di crescita, di apprendimento, o anche solo perché divertente. Provo ogni tanto a "vomitare" su questo schermo queste esperienze per poi ogni tanto ritrovarmi a leggerle e ricostruirle, ma i tempi sono talmente serrati che riporto un quarto di quanto ho in testa

domenica 18 febbraio 2024

IL CANTO DEL MUEZZIN

 Il canto del muezzin

Quel canto che scandisce il tempo delle giornate nei paesi musulmani e che oggi mi accompagna su questi campi kuwaitiani, mi riporta sempre con la mente alla prima volta in cui mi ci sono imbattuto. Ero a Sarajevo, anno domini 2004, e dopo l’allenamento in quel mega campo vicino all’aeroporto con gruppi di bambini a raffica che mi tennero impegnato per circa tre ore, una volta rientrato in hotel, decisi di uscire per un allenamento. Ai tempi (madonnina che frase da vecchio) giocavo ancora, ero a caravaggio e il preparatore mi aveva dato un programma da seguire, per cui armato di foglietto con i tempi e il lavoro da svolgere, uscii un po’ intimorito, ma curioso, per esplorare la città. E dopo pochi passi, senza nemmeno aver concluso il riscaldamento, il timore si trasformò in estasi, al punto che promisi a me stesso che avrei visitato ogni paese, ogni città, ogni villaggio del mondo di corsa, attraverso quella modalità: correndo, esplorandone le strade in piacevole affanno aerobico. E proprio durante quel’ allenamento che ancora oggi ho bene in testa, partì questo canto: era il tramonto e il muezzin chiamava i fedeli alla preghiera, ma io ero assolutamente all’oscuro di tutto ciò e rimasi affascinato da quelle melodie che all’unisono, più o meno, alcune gracchiando per via degli altoparlanti difettosi, altre pulite, riempivano il cielo scuro della città.

E oggi, a distanza di vent’anni, lo stupore rimane il medesimo.

Questa volta sono in campo, al centro olimpico del kuwait, con 36 allenatori e circa 40 bambini, per dimostrare ai primi come proporre un allenamento “educativo” ai secondi, e quando il canto inizia non è sera, ma è il canto per la preghiera del pomeriggio (salat al sar credo si chiami, o qualcosa di simile), ma poco cambia. Mi distraggo un attimo, mi allontano con la testa da questo paese ricchissimo, in enorme crescita dopo la guerra di inizio anni 90 che ha segnato per decenni la popolazione e le città, ambizioso e in grande competizione con gli altri stati del golfo, per rivedermi sulle colline bosniache a correre e a godermi quella scoperta. E un sorriso di soddisfazione e il bisogno di ringraziare Dio per la fortuna che ho, accompagnano il mio “volo pindarico”. A vent'anni di distanza sono ancora qua, altri campi, altra maglia, ma stesso spirito. Se non è fortuna questa, non so cosa possa essere considerata tale

venerdì 16 febbraio 2024

Kuwait: a spasso per la città

 Questa volta è il riff poderoso di dimebag darrell a dare il via al mio "giro turistico" per la città: quando "cowboys from hell" sfonda le mie orecchie, sono già fuori dall'hotel, direzione...vediamo dove mi porta il vento. La giornata è stata lunga e stancante e ho bisogno di staccare per un attimo. Ho, abbiamo, profuso tutto il nostro impegno per coinvolgere, motivare, cambiare l'approccio all'allenamento degli allenatori locali e sebbene possiamo dire che dal punto di vista teorico siano tutti molto preparati, sul campo, in campo, con i bambini di fronte e l'attrezzo da gestire, per molti le cose non sono andate tanto bene. E la spiegazione che mi do è la stessa che mi son dato in altri paesi così stramaledettamene ricchi: hanno tutto, anche di più, troppo, ma mancano di una cosa essenziale, allenatori e ai bambini, una cosa che non posso in nessun modo insegnare, trasmettere: la passione. Manca quel fuoco dentro che rende un allenamento normale, un'occasione unica di apprendimento e crescita; non vedo quella voglia di stare in campo che trasforma una seduta di 90 minuti, in un soffio di vento; non vivono questo mestiere come una benedizione, una grande fortuna, una insostituibile gioia, trasformando il tutto in semplice e banale "lavoro". Che peccato. Certo, non voglio fare di tutta un'erba un fascio, mentirei se dicessi che son tutti così, ma sui 36 che hanno fin qui partecipato al corso, ne riesco a salvare al massimo 12...Si, si, ho bisogno di staccare. E allora fuori di qui, Pantera nelle orecchie, per il mio allenamento quotidiano. Allenamento...purtroppo da novembre questa parola è diventata un po' esagerata accostata a ciò che realmente posso fare: da dopo l'operazione al ginocchio le mie attività si sono dovute drasticamente ridurre e alle sfiancanti e tanto appaganti corse pre intervento, si è ora sostituita l'alternanza tra un giorno di corsa al ritmo di un bradipo e un giorno di camminata tipo sessantenne sovrappeso. Oggi tocca alla camminata, per cui mi avvio verso il lungomare e da qui risalgo verso est la città, con un susseguirsi di immensi grattacielo sulla destra e un via vai frenetico di macchine sotto di essi. Macchine...bolidi! corvette, Porsche, rolls royce...è un susseguirsi di auto di lusso e qualcuna di super lusso, che sfrecciano sulle strade godendo del prezzo irrisorio del petrolio (ca va sans dire, visto dove siamo) e degli stipendi faraonici di chi le guida. Stipendi esentasse, perché in questo lato di mondo le tasse non esistono, alla facciaccia nostra!

Schivo macchine e mega moto da strada ad ogni incrocio per un'ora abbondante, perché qui non esistono semafori pedonali (chi cacchio va a piedi per la città, se non un pirla col ginocchio sifulo?), fin quando non arrivo alla grande moschea, un impressionante edificio che si staglia tra i mega edifici moderni in tutta la sua immensità. Davvero enorme da vedere e mi piacerebbe un sacco riuscire a visitare l'interno, ma nel momento in cui sto passando è chiusa, o per lo meno non ho saputo trovare l'ingresso, per cui desisto e decido di lasciare il lungo mare, per provare ad orientarmi e tornare indietro, visto che tra non molto dobbiamo andare in federazione dal presidente. che palle queste cose: non potrebbe fregarmene di meno, ma fa parte del mio ruolo in questa mia seconda avventura sui campi del mondo, per cui gambe in spalla, che si deve rientrare. 

Sulla strada del ritorno passo attraverso il grande suk della città, un mega mercato tipicamente arabo che ospita oltre a centinaia di negozi di ogni tipo, anche un sacco di persone a passeggio, ferme a prendere un the o un caffè, o a giocare a carte. Già, perché qui mi raccontano che ogni giorno la gente ha molto tempo libero per se stessa, a prescindere dal lavoro svolto, tempo che che viene occupato da qualcuno passeggiando per perdere peso (non lo sapevo, ma il Kuwait è il quarto paese al mondo per tassodi obesità), da altri sorseggiando the con amici e parlando (come amano parlare), da altri ancora invece...dormendo! Davvero, dormendo: qui è consuetudine il riposino pomeridiano, la siesta, dalle 13 alle 15. ciccini, un riposino di due ore...mica male. Lavorare meno, guadagnare di più e avere tempo libero per godersi la vita. Che sogno. Invece...è finita l'ora d'aria. Doccia, vestiti e preparati a stringere mani e dispensare sorrisi. Yalla.

venerdì 2 febbraio 2024

Congo Brazzaville

CONGO BRAZAVILLE

Il giro di basso di Time degli Anthrax si scatena nelle mie orecchie e da inizio a questo tour improvvisato di Brazaville che segue la lunga, lunghissima giornata di oggi e la tre giorni di corso. Improvvisato, ma assolutamente emozionante. Son rimasto solo, il mio compagno di avventure è rimasto in camera per prepararsi, avendo l’aereo già questa sera ( e da un lato lo invidio un sacco. Ho una voglia matta di tornare dalle bimbe, visto che son rientrato da Juba domenica mattina alle 7 dopo una settimana e la sera dello stesso giorno sono ripartito!), ma essendo solo le 3 e avendo tutto il pomeriggio davanti, e soprattutto non dovendo studiare visto che sono stato inesorabilmente bocciato ieri all’esame di anatomia (sostenuto in pausa pranza, nell’ufficio del direttore tecnico della nazionale, con un modem tutto per me acceso al mio fianco), decido di non imbruttirmi in palestra o in piscina, ma di uscire, allo scoperta di questa città. Tutti mi han detto che è sicura, che non ci son pericoli, le sere precedenti sono uscito a correre sulla corniche e mi son sentito sicuro, lontano da ogni pericolo, per cui musica nelle orecchie e via. Lascio il lungo fiume dopo aver attraversato il ponte e inizio ad esplorare l’interno, le strade non asfaltate, con  baracchini che cuociono polli e pesci indecifrabili; mi fermo a parlare con una signorona seduta dietro un banchetto per chiederle che razza di pesce sia quello che sta cucinando, ma purtroppo parla quasi esclusivamente lingala e non riesco a capire che bestia sia. Poco più avanti un ragazzino con la maglia dell’inter mi chiede di fermarmi al suo “negozio” (un bidone ribaltato, sopra il quale è esposta la sua mercanzia: arachidi grigliate) e vista la maglia che indossa, non posso che accontentarlo. Nel frattempo, ho spento la musica, ho deciso di lasciarmi avvolgere completamente, tutti i sensi devono aiutarmi a scoprire questo posto. Il ragazzino avrà più o meno 12 anni, lavora li quando non va a scuola e mi domando quanto mai potrà guadagnare al giorno. Chiedo un sacchettino di arachidi, pur essendo quello con lo zucchero che proprio non gradisco, ma ho in tasca solo un “grande biglietto” come dice lui (1000fca, ossia circa 1,5 eurini) e non ha il resto. Niente, non posso acquistare e non voglio lasciarli i soldi come se facessi la carità. Mi sembra di mancargli completamente di rispetto, di offenderlo. Lo saluto “forza inter”, gli dico. Sorride, ma non credo sappia cosa abbia detto. Penso che indossi quella maglia non per scelta, ma perché quella è arrivata. Chissà come, chissà perché, ma quella ha in casa e quella mette. Così come le altre maglie di club italiani che vedo indossate da chiunque qui intorno: non penso siano indossate per scelta, perché tifosi, ma solo perché quello è arrivato, quello hanno trovato. Magari dico una cazzata. Proseguo il mio tour e un po’ di fame mi assale: in fin dei conti ho fatto colazione questa mattina alle 7:30 e ora son le 16 e ho passato circa tre ore a muovermi su e giù per lo stadio nazionale a dar consigli agli allenatori per migliorare la gestione della seduta, a correggere i bambini e le bambine nell’esecuzione dei vari gesti tecnici trattati nelle diverse sessioni d’allenamento,  a incoraggiare e “gasare” i vari bimbi coinvolti nel progetto. Insomma, la fame è giustificata, per cui, seguendo l’odore di griglia che riempie le mie narici, entro in un cancello…pardon, in un ristorante. Posso dire un ristorante autentico, originale: una mega griglia con dei polli a cuocere, dei mega pentoloni con manioca, saka saka e ndole e una decina di persone seduta su seggiole di plastica che mangia qualcosa, ma soprattutto beve, e parla, ride e commenta la partita che viene trasmessa in tv (Sud africa marocco, che ho visto ieri live). Non sono una persona socievole, per nulla, non sono solito approcciarmi ad altri esseri umani e parlare, chiedere, cercare un contatto, ma qui, non so dire perché, mi viene naturale, per cui chiedo due brochette di poulet con del riso e mi siedo a un tavolo. Gli occhi di molti sono su di me: che cazzo ci fa un bianco qui? Dicono i loro occhi. Sorrido, non mi sento a disagio. Ancora una volta non so perché, ma son tranquillo. A monza, da solo, in un bar, pub o ristorante con intorno gruppi di persone che tra loro si conoscono e di cui io non conosco nemmeno il nome, sarei in estrema difficoltà. Perché qui no? Anzi, attacco anche bottone con un vicino, che mi chiede come mai sia in congo e se mi piace il suo paese. Mah…Riparto. Pago i circa 6 euro per il mio pasto e per la mia acqua, e son di nuovo per strada. Seguo una via asfaltata per un po’, passo vicino a una chiesa dove diversi gruppi di bambini stanno giocando a calcio in quello che potrebbe essere l’oratorio; quindi, mi ritrovo in un mega mercato. Poto-poto, il nome. Cammino tra merci di ogni genere (scarpe adidas con quattro strisce, maglie guci, con una c, orologi “d’oro” e mille altre repliche di quel mondo occidentale che sembra stiano inseguendo, non so poi perché), ma anche qui non avverto pericolo, non mi sento a disagio. La gente intorno mi invita nel suo “negozio”, ma al mio declino non insiste, sorride, mi segue, ma tutto in estrema semplicità. Esco dal mercato che siamo ormai vicini al calar del sole: fin qui tutto bene, ma con le tenebre, meglio non correr rischi. Mi avvicino a un poliziotti, gli chiedo come arrivare alla corniche et…voilat. In meno di un’ora sono in hotel. Direi che ho anche il tempo per andare ad allenarmi.